di Cinzia Termi
psicologa psicoterapeuta
“…c’è il silenzio fra due note, tra due pensieri, tra due movimenti. Non sto parlando di questa qualità del silenzio, che è temporanea, peritura. Si parla di un silenzio che non è prodotto dal pensiero, che scaturisca solo quando si abbia compreso tutto il movimento dell’esistenza. In quel silenzio c’è un estremo senso di spazio e di bellezza, oltre ad una straordinaria sensazione di energia. Ecco l’intero movimento della meditazione” (Krishnamurti)
Tra i primi colleghi e seguaci di Freud, molti avevano familiarità con certe idee sul misticismo orientale e cercavano di accostarvisi da una prospettiva psicoanalitica.
L’amico di Freud, Romain Rolland, seguace dei maestri indiani Ramakrishna e Vivekananda, impegnò Freud in una vivace corrispondenza sulle proprie esperienze di meditazione, come lo stesso Freud descrive in “Il disagio della civiltà” (1929).
Affascinato dai resoconti dell’amico e in qualche modo scettico, egli si sforzò di applicare la propria comprensione psicoanalitica alle esperienze di Rolland. Influenzato da queste suggestioni, egli descrisse il “sentimento oceanico” come il prototipo dell’esperienza mistica, un senso di unicità, sconfinata, con l’universo alla ricerca di un illimitato narcisismo.
Questo fu l’unico tentativo di Freud di spiegare la pratica meditativa, ma non rende ragione delle indagini caratteristiche della riflessione buddista.
Nel corso della storia della psicoanalisi, la meditazione è spesso stata vista come unione preverbale simbiotica e, spesso, le formulazioni più recenti si sono solo concentrate intorno alla questione se tale esperienza sia da considerarsi adattiva oppure, invece, catalogabile come una fuga regressiva e difensiva dalla realtà. Il “sentimento oceanico” di cui parla Freud non si adatta alla comprensione della concezione buddista: la meditazione, secondo questa concezione, non si limita alla creazione di stati di benessere, ma riguarda la realizzazione dell’inesistenza di un Sé dotato di esistenza intrinseca.
Tra le conversazioni di Freud ce n’è una che, a questo proposito, aiuta a riflettere: si tratta di uno scambio con Ludwig Binswanger, psichiatra svizzero e fondatore della psicoanalisi esistenziale. Lo psichiatra aveva avvertito che, nel modo in cui Freud affrontava la terapia, mancava qualcosa e aveva sollevato con lui il problema dello stallo dell’analisi, interrogandosi sulle sue possibili cause e chiedendosi se esse non potessero essere ricondotte ad una “carenza dello spirito”, riferendosi all’incapacità di alcuni di elevarsi ad una “comunicazione spirituale” con i loro analisti. Poteva questo essere l’elemento che bloccava la guarigione?
Freud aveva accattato, in parte, il punto di vista dell’interlocutore, affermando che “lo spirito è tutto”, ma aveva proseguito che gli uomini hanno sempre saputo di possedere lo spirito, egli aveva dovuto dimostrare semmai, sottolineò, che esistono anche gli istinti.
Secondo la prospettiva buddista, esiste un istinto ancor più basilare della sessualità e dell’aggressività: esso consiste nell’ignoranza riguardo la vera natura delle cose, cioè l’istinto della realtà intrinseca. Aggrapparsi al “qualcosa” o al “nulla”, categorizzando la realtà, è un modo dell’Io per comprenderla ed affrontarla e lo stesso meccanismo investe il proprio stesso esistere: tanto il qualcosa, quanto il nulla scaturiscono da un fallace attaccamento alla certezza.
Il Buddha stabilì una via di mezzo tra il qualcosa ed il nulla ed addestrò la consapevolezza a mantenere un approccio “non concettuale”, attraverso la meditazione. Si potrebbe, forse, affermare, che questo insegnamento crei un ponte fra Freud e Binswanger, fra istinto e spirito.
D’altronde, i sistemi che spiegano il funzionamento della mente non sono la mente stessa, come una mappa geografica non è il territorio, ma un sistema coerente di dati che aiuta il ricercatore a trovare orientamento. La realtà viene dunque concepita secondo il modello psichico che funziona per quel soggetto.
In questo senso, anche il Buddismo può essere definito come uno degli strumenti utilizzabili per la ricerca sperimentale della vera natura della mente e del suo funzionamento.
Freud aveva posto l’accento sul fatto che la mente può essere tesa a ricercare la propria libertà e, al tempo stesso, di intralcio a se stessa: egli aveva sottolineato questa duplice capacità ed aveva concepito una serie di strategie tese ad eludere l’Io difensivo e spaventato e ad ingannare la mente razionale, allentandone il controllo. Muovendosi fra ipnosi, interpretazione dei sogni, libere associazioni e transfert, Freud perfezionava la via all’inconscio e cercava di penetrare gli strati più profondi della mente. Si potrebbe riflettere, a questo proposito, sul fatto che dalla nascita della psicoanalisi in poi è diventato più chiaro che il vivere “in superficie” non permette di dedicare energia psichica a quel lato, forse spaventoso, ma fertile, che attiene al profondo. Una delle metafore che Freud utilizzava parlando di psicoanalisi è, non a caso, quello dello scavo archeologico. Egli aveva scoperto la strada per un mondo “intermedio”: sogni, motti di spirito, libere associazioni e transfert hanno condotto a quello spazio di mezzo denominato inconscio. Se si considera la nozione di inconscio, non si può che affermare che questo è uno dei concetti più potenti di tutta la psicologia moderna: esso però porta con sé un grande carico problematico relativo al proprio significato, insieme al suo forte potere esplicativo.
L’inconscio è stato visto, dalla psicoanalisi della prima ora, come un aspetto della mente “dentro” l’organismo, in parte separato dalla totalità degli eventi che si svolgono nell’ambiente circostante nel momento dell’osservazione.
La mente, dunque, come apparato psichico e come sistema “separato”: questo concetto apre la strada al dualismo mente-corpo.
Inoltre lo stesso dualismo caratterizza il rapporto fra coscienza ed inconscio, portatori di finalità essenzialmente antagonistiche.
Quando, secondo un’altra prospettiva, la mente viene intesa come un processo ed un fluire di istanti, invece che come un’entità statica, cambia profondamente il punto di vista sul fenomeno in esame.
Risulta essenziale comprendere, allora, in quale senso il processo inconscio sia un aspetto importante dell’esperienza umana con cui è possibile entrare in relazione e se esista una strada per interpretare l’inconscio in modo non dualistico. Questa strada è indicata nel Buddismo come la via della meditazione, che mette in contatto con le cose “così come sono”.
Potrebbe essere utile giungere ad una concezione del processo inconscio che consenta di accostarsi all’esperienza della pratica da una angolazione che ne faciliti la comprensione.
E’ necessario però sottolineare che la difficoltà, relativa a questo argomento, è dovuta al fatto che la meditazione non può essere compresa fino in fondo, obbiettivamente, attraverso le categorie della mente pensante, proprio perché, per sua natura, essa le trascende.
La meditazione non è un particolare tipo di esperienza, quanto, piuttosto, un modo per cogliere la vera natura dell’esperienza: essa dunque elude ogni tentativo di inquadrarla concettualmente.
Nessun tentativo di analisi della meditazione potrà mai sostituire la comprensione che deriva dalla sperimentazione. Allo stesso modo per il percorso psicoanalitico: nulla, sulla strada per la comprensione, è equiparabile all’esperienza diretta.
Per giungere a comprendere meglio psicoanalisi e pratica, nella prospettiva dello sviluppo delle potenzialità della mente di cui sono portatrici, si può allora sottolineare che l’essere umano può essere concepito come un “processo” costantemente in relazione con gli altri e con l’esterno e, dunque, gli eventi psicologici possono essere intesi come modi di “organizzare” le relazioni e come forme di interazione. Alla luce di questo assunto, conscio ed inconscio possono essere intesi come due modi diversi con cui l’organismo predispone la relazione con il mondo, piuttosto che due parti separate della psiche.
In questa ottica, la minaccia maggiore per l’Io potrebbe essere rappresentata, non tanto dai bisogni istintuali, ma piuttosto dalla qualità aperta e instabile dell’essere nel mondo, dallo scoprire che l’Io non ha fondamenta sicure, che l’identità è sfuggente e fluida, che la vita è intessuta di tante piccole morti reiterate.
La meditazione può essere intesa come processo di scoperta di sé che è, al tempo stesso, scoperta del mondo, nella misura in cui l’essere umano ricrea costantemente il mondo, egli è il mondo: la via che porta all’esterno è la stessa che porta all’interno. L’esperienza che si fa del mondo è mediata dal filtro della mente pensante, che si basa sul linguaggio e che ha sviluppato categorie e parole per le esperienze. Nel linguaggio psicoanalitico, questo filtro viene chiamato processo secondario. A volte, questa capacità di parlare e comunicare viene adibita a scopi difensivi: la mente diventa reattiva e la sensazione è quella dell’estraniamento e del vuoto.
La meditazione offre un’alternativa a questo processo, che è, per certi versi, simile a quello che la psicologia occidentale chiama processo primario: momento non strutturato di sogno o fantasia in cui immagini, sensazioni, intuizioni, associazioni prendono il sopravvento nel fluire mentale.
Nel caso della meditazione, si tratta di una vigilanza concentrata o attenzione rilassata: essa affiora, con modalità differenti, nei vari stadi della pratica.
La sensazione è quella di essere entrati in un territorio nuovo, si sente la mente stabilizzarsi e divenire più limpida e chiara: è quella che viene chiamata “concentrazione di accesso”, dove la mente del praticante esperisce la “calma” per la prima volta. Nella letteratura buddista, questo stato è paragonato alla prima radura che si incontra durante una lunga escursione, dopo un fitto bosco ed un tragitto difficile. La tentazione è quella di riposarsi un attimo, ma questa radura è anche un bivio, due sono i modi per proseguire. Il primo è quello della concentrazione, dove gioia e beatitudine cedono il passo ad una profonda equanimità, l’altro coinvolge l’equilibrio fra concentrazione e presenza mentale: la mente inizia ad osservare tutte le reazioni del corpo e della psiche. Questo ultimo è conosciuto come il sentiero della sapienza. Nella prima via, l’attenzione è focalizzata e tenuta a freno, nella seconda viene controllata e poi lasciata libera. Addestramento, conoscenza e trasformazione caratterizzano questa seconda via della mente, che giunge alla creatività e ala spontaneità, finestre sulla continuità d’essere.
Ecco allora che approfondire la tematica relativa al preconscio, può aiutare ad avvicinarsi meglio alla comprensione dello spazio d’esperienza che, per molti versi, accomuna la pratica meditativa ed alcuni indirizzi di pratica analitica.
Speziale Bagliacca, nel suo libro Colpa (1997), dedica una lunga descrizione proprio al preconscio, che ritiene responsabile, fra l’altro, dei sogni e della rêverie, a cui affida un ruolo fondamentale nel rapporto terapeuta-paziente. E’ interessante analizzare il punto di vista di questo autore relativamente a questa istanza della mente, proprio perché egli ne evidenzia caratteristiche tali da renderla per certi versi assimilabile alla descrizione della mente, teatro dell’intuizione, che viene indicata, dai testi relativi alla pratica meditativa, come l’area della mente con cui si confronta il praticante durante la meditazione.
Il preconscio, nella concezione di questo autore, è un’area della mente altamente specializzata, dotata di una poderosa memoria e, in certe condizioni, di una capacitò di analisi e di sintesi assai maggiore della mente cosciente.
Esso si differenzia sia dalla coscienza che dall’inconscio.
Parlando di preconscio, ci si avvicina alla tematica dell’intuizione, dell’interpretazione musicale e teatrale, della creatività in generale.
L’autore, parlando di preconscio, intende la mente del poeta. Il preconscio è sede dell’intuitività empatica ed istintiva ed è in grado di cogliere i diversi piani della realtà con i loro interscambi; è potenzialità “femminile” e capacità creatrice, essa tende normalmente ad operare nei momenti di passaggio fra la veglia ed il sonno. In questi momenti possono venire alla mente soluzioni a problemi cercati a lungo: la coscienza non ha ancora invaso i territori del preconscio, ma è già sveglia. L’ipotesi dell’autore è che, quando la coscienza è addormentata, il preconscio si esprima attraverso i miti dei sogni, quando essa è vigile ma non predomina ancora, essa aiuta il preconscio a tradurre le soluzioni che esso ha intuito. Il preconscio designerebbe, dunque, ciò che è implicitamente presente nell’attività mentale, senza essere per questo posto come oggetto della coscienza; esso è accessibile alla coscienza, mentre l’inconscio ne rimane separato.
La mente cosciente tende a tenere sotto il proprio controllo l’attività del preconscio. Speziale Bagliacca accompagna il lettore a meglio comprendere questo concetto riferendosi al pantheon delle divinità greche ed in particolare parlando di Metis, madre di Atena che è dea della ragione e della guerra. Μetis è protettrice dell’artigiano, il quale non sa teorizzare quello che fa, ma compie il proprio lavoro in modo inimitabile: il sapere artigiano è, allora, sapere preconscio laddove assomiglia a Μetis e sa cogliere le sfumature dell’esistenza, senza le quali sarebbe impossibile giungere a soluzioni che a volte appaiono inarrivabili, creare opere d’arte sublimi, “lasciarsi sostare” in attesa, liberi dalla spinta a precipitarsi all’ombra della coscienza razionale.
D’altronde, sottolinea Speziale, il preconscio, che predomina nel pensiero femminile, può riuscire a cogliere il cuore del problema, ma anche fallire e sfociare nel delirio o quantomeno nell’incredulità acritica. Esso non deve, dunque, essere idealizzato ed occorre tenere presente che ogni pensiero, maschile, femminile o integrato, ha una componente conscia, una inconscia ed una preconscia. Il pensiero integrato, in cui si ha reciproca complementarietà fra pensiero conscio e preconscio, dovrebbe potersi muovere, ci ricorda l’autore, fra le due istanze e dovrebbe essere capace di decifrare, quando occorre, i messaggi dell’inconscio senza farsene sopraffare. Per questo, afferma Speziale, il pensiero integrato dovrebbe essere la meta di ognuno, modello ideale irraggiungibile.
La cultura greca, con la sua dedizione alla logica e alla ragione, tenderà a distruggere il mito di Μetis e a procedere lungo un percorso che porterà ad atrofizzare l’importanza del preconscio e della mente poetica ed intuitiva. Sarà Atena, dea della ragione, a risplendere su tutto il mondo greco: in nome della ragione, la cultura occidentale tenderà a svilire l’uso del preconscio, che risulta, però, terreno prezioso per il lavoro psicologico e per la pratica meditativa.
In ambito terapeutico, l’equilibrio fra contenimento ed interpretazione è in larga misura declinato attraverso la capacità di lasciare spazio d’azione al “buon preconscio”.
Se l’analista scopre che ciò che il paziente dice lo sorprende, potrebbe significare che è rimasto con la mente sgombra, in attesa che la direzione la indichi il paziente. Sarà questa ripetuta esperienza, sottolinea Speziale, che confermerà al paziente la capacità contenitiva del terapeuta, unita alla tenerezza, indispensabile perché il paziente senta che, nel corso della terapia, è possibile attendere e trovare tempo. Se dunque il preconscio è quello del poeta e dell’artigiano, che ha assimilato in modo non intellettualistico ciò che serve a capire, esso riuscirà a collaborare al momento giusto con la coscienza, per aiutare a decifrare ciò che è poco chiaro. Sarà Bion a sottolineare la distinzione fra memoria cosciente e memoria preconscia: alla memoria, intesa come deposito di nozioni e ricordi filtrato dalla razionalità, contrappone il “ricordare”, che è situabile nell’area del preconscio. Non si tratterà allora di non avere memoria, ma di sostare, fiduciosi che il “ricordare” di Bion entri in scena e cooperi alla comprensione di quello che sembrava intraducibile.
Le due tradizioni, occidentale ed orientale, prescrivono dunque percorsi diversi per addestrare la mente a raggiungere questo stato di vuoto ricettivo, ma in entrambi gli approcci, risultano essenziali le caratteristiche personali di chi accompagna in questo viaggio, sia esso il terapeuta, nel caso dell’analisi, sia esso il maestro di meditazione, nel caso della pratica.
Malgrado le somiglianze, è però importante sottolinearlo chiaramente, meditazione e psicoanalisi non sono, ovviamente, la stessa cosa: una stessa persona farà esperienze molto diverse, a seconda che sia impegnata nell’una o nell’altra. Dopo avere riflettuto su ciò che c’è di prezioso e di unico nelle due esperienze, è importante porre attenzione ai pericoli di una semplicistica mescolanza di psicologia occidentale e pratica meditativa. L’adozione di idee e tecniche orientali, priva di una profonda assimilazione che passi per l’esperienza, può essere discutibile, ma diventa pericolosa se questo avviene nell’ambito della psicoterapia.
Psicoanalisi e meditazione sembrano avere qualcosa di importante da offrirsi a vicenda e se un tempo sembrava valido un unico modello, lineare, che consisteva nel lavorare prima con la terapia, poi con la meditazione, prima conoscere il Sé, poi, eventualmente, “abbandonarlo”, oggi si potrebbe ipotizzare che, in alcuni casi, i due percorsi possano essere paralleli. Occorre però porre l’accento, fermamente, sul fatto che, come fa notare Corrado Pensa, in certi casi la meditazione è sconsigliabile ed occorre avere chiara la consapevolezza riguardo alle aree di problemi psicologici che rappresentano un ostacolo o una controindicazione ad intraprendere un cammino interiore: le sindromi borderline, le depressioni gravi, i problemi psicologici portati in superficie proprio dalla pratica ed, infine, la categoria dei “grandi equivoci” relativi alla spiritualità.
Si può, concludendo, riflettere sul fatto che la pratica meditativa rende produttivo, ai fini della valorizzazione delle potenzialità della mente, la capacità di sostare e di accogliere tutto ciò che sorge negli spazi fra i pensieri e questo permette il realizzarsi di una nuova modalità di sentire. Al tempo stesso, una modalità di approccio alla terapia che privilegi le capacità contenitive del terapeuta e insegni al paziente ad utilizzare la rêverie, come strada sulla via del perfezionamento della propria capacità di contenere, debba lavorare sulla possibilità di “lasciar andare” gli stimoli sensoriali e di sostare, in attesa di una riduzione della centralità dell’attività raziocinante. Si può dire che si tratti, in entrambi i casi, di attitudini che allenano a non avere fretta e a lasciare spazio per “accogliere”, attività “femminili” di attenzione ricettiva, materna, istanze che aprono la strada all’attività del preconscio.
Si tratta, in ultima analisi, della proposta di una rivoluzione nei confronti del “tempo”, che l’essere umano che sia sulla via della ricerca decide di concedersi, per comprendere e “sentire” in modo “altro”.
Del recupero della dimensione del tempo del vivere, l’uomo di oggi sembra avere un disperato bisogno.
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Cinzia Termi
psicologa psicoterapeuta
La sua formazione accademica è di impronta prevalentemente psicodinamica.
Fin dall’adolescenza, la sua storia è legata al desiderio di sperimentare il lavoro corporeo e le mille sfaccettature delle interazioni mente/corpo: questo l’ha portata ad avvicinarsi alle pratiche di yoga e meditazione, che pratica da circa venticinque anni, allo shiatsu e all’approfondimento delle tecniche a mediazione corporea. Ha conseguito un diploma di insegnante di yoga e uno di operatore shiatsu.
Si occupa di percorsi di crescita personale, lavorando con gruppi e singoli, utilizzando rilassamento, visualizzazioni, tecniche di respirazione, meditazione, shiatsu.
Conduce regolarmente, da circa quindici anni, gruppi di yoga, meditazione e laboratori di consapevolezza corporea.
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