A tavola con mamma e papà: messaggi veicolati dal cibo che costruiscono il modo di entrare in relazione col mondo.*
di Chiara Giudici
psicologa
L’alimentazione come nutrimento affettivo.
Quando nutriamo i nostri figli passiamo loro molto più del cibo, li nutriamo anche delle emozioni che noi abbiamo mentre stiamo cucinando per loro e gli stiamo dando da mangiare. Li nutriamo anche di quello che è il nostro rapporto con il nostro corpo e con il cibo, di quello che è il nostro modo di dare, di ricevere, di rifiutare, di accogliere e di reagire al rifiuto.
Vediamo di capire bene come funzioni questo processo, andandolo ad osservare fin dalle origini. Quando una donna è incinta, il modo in cui ha cura di se stessa incide notevolmente sulla crescita fisica ed emotiva del feto, così anche il cibo che mangia, ma soprattutto come lo mangia! Facciamo alcuni esempi. Se la futura madre vive il nutrirsi con gusto e piacere, saranno questi i messaggi che passerà al feto, che potrà crescere armoniosamente senza gonfiarsi a dismisura; se lo vive come una fatica necessaria alla sopravvivenza passerà al figlio il proprio vissuto di fastidio verso il cibo; se ancora si abboffa e sente di non poterne fare a meno passerà al feto quella sensazione di vuoto incolmabile che il bambino cercherà di riempire, magari col cibo.
Così, successivamente, in allattamento. Una madre che allatta (al seno o con il biberon) e gode di questo momento, nutrendosi anche lei dello scambio di sguardi con il piccolo e della delicatezza del contatto tra loro, trasmette al proprio bambino l’amore, insieme al nutrimento, amore che si trasformerà in amore per Sé, ma anche in amore per il cibo e per la vita. Se la madre nutrirà il bambino anche allattandolo a lungo ma con una dimensione emotiva più legata al dovere che al piacere, sarà probabilmente distratta: potrà non guardarlo quando poppa, magari impegnata a fare altro, e potrà non fare caso al modo in cui lo tiene in braccio, impedendo così il piacere del bambino nel nutrirsi:
il bambino sarà troppo consapevole del volere di lei per essere naturalmente e pienamente se stesso, il suo essere ne sarà turbato (Lowen, 1972, p. 181).
La madre che allatterà il piccolo infilandogli continuamente la tetta o il biberon in bocca ad ogni suo mugolio, non cogliendo magari il semplice bisogno di scaricare l’eccitazione col pianto, soffocherà il bambino con l’eccessiva presenza (lo guarderà e toccherà continuamente) e non gli consentirà di sperimentare il vuoto, così crescendo, quel bambino avrà questa difficoltà nella vita che potrà riflettersi anche in ambito alimentare.
Non è l’atto di allattare al seno che è così significativo, ma ciò che esso implica. Se implica che la madre possa ricavare soddisfazione e realizzazione nella sua funzione naturale in quanto donna, il lattante potrà provare la medesima soddisfazione nelle proprie funzioni. (Lowen, 1972, p. 181)
Così via, mano a mano che i bambini crescono, dallo svezzamento in avanti, le madri andranno a rinforzare questi messaggi impliciti che sono veicolati dal cibo con tutta una serie di comportamenti e di comunicazioni verbali che vedremo tra poco.
Vediamo a titolo esemplificativo un passo di Lowen, inserito in un capitolo del suo libro La Depressione e il Corpo, in cui analizza la struttura del funzionamento della cultura occidentale proprio attraverso un esempio inerente lo stare a tavola:
Un bambino dice alla mamma: “Non voglio mangiare la verdura”. Alcune madri probabilmente insisteranno, ma molte risponderanno chiedendo a loro volta: “perché non vuoi mangiare la verdura?”. Se il bambino risponde: “Non mi va di mangiarla”, può darsi che la mamma a sua volta replichi: “dimmi la ragione”. Pare che abbiamo bisogno di ragioni per giustificare il comportamento. I sentimenti non sono ragioni e pertanto non possono essere considerati sufficienti a giustificare le azioni di una persona. Ma poiché la motivazione dell’azione è proprio quel che si sente, siamo costantemente costretti a giustificare i nostri sentimenti, il che significa in ultima analisi giustificare il nostro diritto di esistere. La ragione prende la precedenza sul sentimento.”. (Lowen,1972 , p. 186)
L’alimentazione come strumento inconsapevole per veicolare messaggi.
Non è l’allattamento al seno in sé il problema principale, ma la fede e la fiducia che esso veicola o meno.
Il bambino acquista un senso fondamentale di fiducia nel proprio mondo o deve lottare con i dubbi, le angosce e i sensi di colpa relativi al suo diritto di ottenere ciò che vuole o di cui ha bisogno. È implicito nel termine “ottenere” il diritto di ricevere e il diritto di protendersi per prendere. Quando una persona non è sicura di avere tale diritto, il suo modo di protendersi verso il mondo è esitante, limitato dalla cautela, e non rappresenta mai un impegno totale. L’ambivalenza pervade le sue azioni; egli si protende e si tira indietro al tempo stesso. (…) Quando un bambino perde la fede nella madre per aver fatto l’esperienza della sua scarsa disponibilità nei suoi confronti, comincia a perdere fiducia in se stesso. Comincia a non fidarsi più delle proprie sensazioni, dei propri impulsi e del proprio corpo. (Lowen, 1972, p. 167)
Nella relazione con i genitori a partire dall’allattamento fino a quando il bambino siederà a tavola con i genitori, il cibo diventa un simbolo di diversi aspetti: l’unione famigliare, il piacere della relazione, la ricerca di socializzazione (pensiamo ad esempio ai diversi messaggi passati dal mangiare a tavola tutti insieme o dal mangiare sul divano davanti alla televisione), ma anche strategia di ricatto e punizione da parte del genitore, nonché uno strumento di contrapposizione agli adulti per il figlio. Il bambino sin da quando è in fasce e sempre di più crescendo riconosce come le persone che lo accudiscono non siano indifferenti al cibo che lui assume e scopre come la sua relazione con il cibo possa diventare uno strumento di potere nella relazione con i genitori. Il troppo interesse circa il fatto che mangi troppo o troppo poco, la soddisfazione o l’irritazione rispetto al modo in cui lo fa (rispetto delle regole, lo sporcarsi e lo sporcare) costituiscono una base per dare significati di natura affettiva e relazionale che vanno ad aggiungersi al valore meramente nutrizionale. Quando un bambino arriva a dichiarare guerra ai genitori attraverso il suo rapporto con il cibo, pensiamo ai disturbi alimentari, lo fa nell’inconscio tentativo di comunicare loro un disagio relativo alla relazione con loro, al nutrimento affettivo di cui è stato privato o nel quale è stato immerso esageratamente.
Un altro aspetto di non secondaria importanze riguarda le conseguenze sociali dell’educazione alimentare: la cornice che i genitori creano durante il pasto diventa una delle basi nell’acquisizione delle regole sociali, di una propria autonomia (con l’esplorazione della propria identità attraverso il gusto) e di un atteggiamento fiducioso verso il mondo.
Vediamo alcune situazioni tipiche in cui veicoliamo messaggi negativi, per comprendere meglio i messaggi che passiamo ai bambini:
“Mangia tutta la pappa, così la mamma ti vuole bene!” -> Il ricatto emotivo
“Ma come non ti piace la pappa? L’ha preparata la mamma con tanto amore?”; “Non ti piace? Ma cosa dici! È buonissimo!”-> La negazione del sentire (che spesso uniamo al ricatto emotivo)
“Se mangi la pappa ti faccio vedere i cartoni.” “Se non finisci la minestra non ti faccio vedere i cartoni” -> Il ricatto / Premi vs. punizioni
“Non c’è il pesce nel sugo, stai tranquillo, è solo sugo rosso!” -> L’inganno o il fine giustifica i mezzi
“Se mangi gli spinaci diventerai fortissimo!” -> La proiezione di aspettative e l’inganno
“Se non mangi quello che hai nel piatto vai a letto senza cena!” -> La punizione
Il ricatto emotivo
“Ma che bravo questo bambino, ha mangiato proprio tutto! È l’amore della mamma!”
Chi di noi avrebbe, in coscienza, pensato che una frase del genere, quando ripetuta frequentemente, potesse avere in sé un nucleo potenzialmente negativo, che passa al bambino un messaggio implicito del tipo “ti amo se fai quello che ti dico io, non ti amo se fai quello che senti”? Questo tipo di messaggio rinforza la strutturazione di una personalità di facciata, il bambino calpesta ciò che sente per adeguarsi alle richieste esterne e porta all’apprendimento della manipolazione come strumento relazionale.
La negazione del sentire
Quando non arriviamo addirittura a negare il sentire del bambino: “Non ti piace? Ma cosa dici! È buonissimo!”, pensando che lui stia facendo un capriccio perché vorrebbe mangiare solo ciò che più ama. Gli passiamo così un messaggio forte: “quello che senti tu è sbagliato, devi sentire quello che sento io” che se ripetuto a lungo, rinforzerà un suo allontanarsi dal corpo e una perdita di fiducia in se stesso e nelle sue sensazioni, che considererà non affidabili. È chiaro quanto sia complesso comprendere qual è il confine tra educare a sperimentare un gusto nuovo o a mangiare in modo equilibrato e soffocare la volontà del bambino. In questa società sempre più malata, dove gli agenti inquinanti arrivano anche nelle colture biologiche, dove la diffidenza diventa necessaria alla sopravvivenza è ancora più difficile essere genitori equilibrati. Ci troviamo infatti in un conflitto tra la buona pratica legata anche alla realtà esterna, con le regole base per sostenere i nostri figli nello sviluppo di una crescita sana e lo sviluppo della loro indipendenza che si manifesta con la ribellione alle nostre rigide direttive.
Il Ricatto: Premi vs. punizioni
Ma possiamo anche operare un ricatto concreto, legato ad una sottile lotta di potere in cui l’adulto piega la volontà del bambino per asservirla al proprio volere: “Se mangi la pappa ti faccio vedere i cartoni.”; “Se non finisci la minestra non ti faccio vedere i cartoni”; “Se non mangi quello che hai nel piatto vai a letto senza cena!”. Si entra facilmente in sfida con i figli, anche quando sono molto piccoli (già prima dei 3 anni cominciano i comportamenti provocatori maggiormente rivolti al genitore dello stesso sesso), senza rendersi conto che di questo si tratta: ci raccontiamo che li vogliamo educare, ma la gran parte delle volte stiamo definendo chi comanda. Così il genitore messo a dura prova dalla costanza e dalla testardaggine del figlio tira fuori premi e punizioni. Tutti sappiamo ormai che funzionano più i premi delle punizioni e i genitori della nuova generazione tendono ad usare il rinforzo positivo più di quello negativo, ma pur sempre di rinforzo si tratta. Cosa intendo dire? Che questi due strumenti addestrano e non educano. Addestrare significa far fare ciò che io voglio, educare significa far crescere qualcosa che è già presente nel soggetto.
L’inganno o il fine giustifica i mezzi
“Non c’è il pesce nel sugo, stai tranquillo, è solo sugo rosso!”
La manipolazione è uno strumento sottile, siamo così abituati ad usarla che neppure ci rendiamo conto di farlo, né tanto meno comprendiamo che così facendo addestriamo i nostri figli all’uso dello stesso strumento. Ma, come può una mamma che lavora, fa una spesa attenta e cucina in modo sano gestire anche le lamentele del figlio? Non si può pretendere la perfezione, anche gli adulti hanno dei limiti! Così, sembra nascere l’esigenza di manipolare, per fare meno fatica, per sottomettere l’altro alla nostra volontà, by-passando il confronto con la sua. Ma in questo modo il bambino non è educato ai gusti diversificati e, anche se restiamo nello stretto ambito alimentare, non conserverà l’abitudine da adulto ( ad es. perché non ha sentito il gusto del pesce coperto dal sugo rosso) e se andiamo sul versante relazionale, potrà imparare che per ottenere un fine ritenuto “buono” qualunque mezzo è lecito e sarà portato a diffidare delle proprie percezioni o degli altri perché è stato messo in una posizione “impossibile”: o credo a ciò che sento con il gusto o credo a ciò che dice la mamma, ma l’una esclude l’altra. Questi effetti a lungo termine ci sono quando ripetiamo questa modalità in modo continuo e non se la utilizziamo una volta o due!
La proiezione di aspettative e l’inganno
“Se mangi gli spinaci diventerai fortissimo!”
Non so se questa frase d’uso così comune veicoli maggiormente un inganno nella forma sopra espressa o non sia proprio una proiezione del genitore che vorrebbe il figlio forte, bello, intelligente, ecc… Come nelle altre sfere passiamo implicitamente ai bambini ciò che desidereremmo per loro, suscitando comportamenti di aderenza o di ribellione e in ambito alimentare facciamo lo stesso. Ciò significa che anche nel rapporto che il bambino ha con il cibo possono nascondersi comportamenti reattivi al genitore, pensiamo a tutta la sfera dei disturbi alimentari o immaginiamo semplicemente quando vorremmo che il nostro bambino fosse migliore di noi nell’aspetto come nelle qualità caratteriali. Anche le aspettative positive hanno un grande potere di condizionamento in negativo, nel senso che pongono un peso sulle spalle del bambino che sta crescendo e che deve convivere con ciò che sente e che dovrebbe indirizzare il suo sviluppo e ciò che il genitore desidera per lui, che molto spesso finisce per orientarlo diversamente.
Alla luce di questi esempi, si evince come la realtà della comunicazione tra genitori e figli, anche a tavola, sia ricca di doppi messaggi, che il genitore passa senza rendersene conto. Cosa voglio dire? Anche se fosse possibile redigere un manuale delle frasi da dire e di quelle da non dire, non servirebbe, perché ci muoviamo nella relazione con i nostri figli, o nipoti, con quella che è la nostra modalità relazionale che abbiamo appreso a nostra volta nel rapporto con i nostri genitori. Quindi per nutrire concretamente ed affettivamente i nostri bambini, la migliore possibilità che abbiamo è quella di lavorare per essere consapevoli di cosa ci spinga ad agire in un certo modo.
Il modo in cui ognuno di noi è stato nutrito fisicamente ed affettivamente, il nostro avere o meno accettato quel nutrimento e il nostro esserci protesi o meno per prenderlo hanno costruito il nostro modo di entrare in contatto con noi stessi e con il mondo esterno, dunque la nostra struttura di personalità. Quindi non aver lavorato per risolvere i propri problemi personali ci porterà a manifestarli nel nostro modo di alimentarci, trasmettendoli inconsapevolmente ai nostri figli.
Per concludere vi inviterei a provare ad immaginare come potremmo trasformare queste frasi “tipiche”, partendo dall’esperienza di come ci sentiamo noi quando qualcuno cerca di convincerci a fare qualcosa che non ci sentiamo di fare, o nega l’espressione di ciò che stiamo sentendo.
Emergeranno delle emozioni. Ad esempio la rabbia come sfondo principale che si sviluppa quando qualcuno ci impedisce nel movimento e nella realizzazione della nostra volontà. E la rabbia, è appunto, l’emozione che i bambini esprimono generalmente nelle situazioni tipiche sopra riportate. La rabbia, lungi dall’essere un’emozione negativa come culturalmente siamo portati a pensarla, è lo strumento emotivo che consente alla persona, bambino, di trovare l’energia per perseguire i propri scopi e, dunque, la base emotiva per potergli consentire di sviluppare il senso e la padronanza di Sé, comunemente noti come “contatto con Sé” ed “autostima”. Questa riflessione ci può consentire di leggere in una chiave positiva gli atteggiamenti irritanti e fastidiosi che i nostri bambini sviluppano nella relazione con noi e ci consente di cogliere come la sfida e la lotta con i genitori serva loro a confrontarsi con la realtà esterna per poter fare esperienza di Sé e della definizione dei propri confini.
Quanto detto non vuole incentivare i genitori a non mettere limiti, anzi, vuol mostrare proprio l’importanza di questo “ingrato” e faticoso compito nella strutturazione della personalità dei loro bambini, se al limite che mettiamo riusciamo a riunire un atteggiamento consapevole di noi stessi (di ciò che come genitori proviamo in quel momento), che ci consente di sgridare il bambino per scelta e non per reazione. Soffermandoci su ciò che proviamo come genitori, sull’emozione e la sensazione fisica che l’agire del bambino suscita in noi in quel momento possiamo prenderci un breve spazio riflessivo sufficiente a stoppare un reagire immediato per arrivare a scegliere il nostro comportamento. Questa capacità di fermarsi e riflettere prima di agire mette le basi per poter passare il messaggio implicito del limite come strumento di tutela di Sé e dell’Altro. Quando reagiamo esplodiamo in preda all’emozione e la nostra reazione è isterica e simile a quella del bambino (non a caso la sua modalità riattiva aspetti irrisolti che abbiamo con i nostri genitori). Quando ci fermiamo prima di agire riusciamo invece a contenere l’azione del bambino e il bambino stesso, con fermezza e con amore. Ed è questo ciò che vorrei che rimanesse: la fermezza, espressione della padronanza di Sé, non è disgiunta dall’amore, anzi l’una non può esserci senza l’altra.
*Relazione relativa all’incontro promosso da Associazione Zoé e Comitato Genitori Albisola Superiore, tenutosi presso la Libreria Biblis nell’ambito del MIP 2013
Autrice:
Chiara Giudici
Psicologa, conduttrice di Classi di Esercizio Bioenergetico
Savona
e-mail: chiara_giudici@fastwebnet.it
tel. 347 7716567
Bibliografia Psicologica relativa all’incontro.
Lowen, A. (1972) La depressione e il corpo. La base biologica della fede e della realtà. ed. Astrolabio, 1980, Roma.
Lowen, A. (1975) Bioenergetica. ed. Feltrinelli
Lowen, A. (1983) Il narcisismo. L’identità rinnegata. ed. Feltrinelli
Winnicott, D. W. (1070) Sviluppo affettivo e ambiente. ed. Armando
Bibliografia consigliata genitori e figli
Narrativa adulti-ragazzi
Nothomb, A. (2000) Metafisica dei tubi ed. Le Fenici
Pennac, D. (2012) Storia di un corpo. ed. Feltrinelli
Pullman, P. (1995) Queste oscure materie. ed. Salani
Narrativa bambini
Davies, N. La cacca. Ed. Scienza
Donaldson, J. Guarda un po’ che Gruffalò. ed. Emme
Donnio,S. Mangerei volentieri un bambino. ed. Babalibri
Le Saux, A. Come educare il tuo papà. ed. Il Castoro
Lionni, L. Piccolo blu e piccolo giallo ed. Babalibri
Lionni, L. Federico ed. Babalibri
Lionni, L. Un pesce è un pesce. ed. Babalibri
Lionni, L. La casa più grande del mondo. ed.Babalibri
Munari, B. Nella notte buia ed. Corraini
Munari, B. Il venditore di animali ed. Corraini
Sendak, M. Nel paese dei mostri selvaggi. ed. Babalibri
Weitze, M. e Battut, E. Come il piccolo elefante rosa divenne molto triste e poi tornò molto felice. Ed. Arka